Tutti possono…Ed è possibile, possibile, possibile.

Pubblicato: 24 ottobre 2010 in Pensieri

“Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”


Recita così l’Art. 4 della nostra Costituzione, anche se pare ormai lontano da una realtà che privilegia l’aspetto unicamente materiale del lavoro e, quindi, del progresso.

Molte aziende, dopo anni dedicati a promuovere una logica di cinica competizione, recitano oggi slogan pieni di idealismo i quali, però, non vanno spesso molto oltre le strategie di comunicazione. I dipendenti, d’altro canto, lungi dallo svolgere un’attività “secondo le proprie possibilità e la propria scelta”, si trovano costretti ad una vita di sacrifici, basata più sui modelli di una società di “vincenti”, che sulle proprie, concrete aspirazioni individuali. Quanti impiegati tristi sarebbero potuti diventare degli agricoltori in gamba? Quanti figli di onesti lavoratori, invece di innovare con estro e con passione le attività dei propri genitori, hanno rincorso le chimere del successo? E quanti “figli di papà” hanno rinunciato a loro stessi, pur di essere coerenti con le aspettative dei genitori? Quanti manager hanno compensato con il potere la ricerca di amore, o di sentimenti molto più profondi? Per quanti, infine, il lavoro è un prolungamento dell’ego e non, invece, un arricchimento dell’anima?

In questo panorama, alcune aziende virtuose sono state considerate come veri e propri paradisi per il dipendente. Basti pensare alla classifica (anche italiana) dei Great Place to Work, che sceglie i migliori posti in cui lavorare sulla base di un modello basato su parametri come credibilità, rispetto, equità, orgoglio e cameratismo, riconducendo ad essi anche dei buoni risultati finanziari, come a dire che le aziende in cui si sta meglio, hanno anche un buon impatto sul mercato. Nell’immaginario collettivo anche Google rappresenta l’Eden dei lavoratori, soprattutto in termini di comodità e di creatività: il quartier generale (chiamato Googleplex), di Mountain View offre persino parchi verdi, campi di beach-volley, piscine, saloni per massaggi, tavoli da biliardo, sale fitness, ristoranti. Qui ogni dipendente ha a disposizione un 20% del tempo destinato all’orario di lavoro da impiegare per sviluppare progetti in proprio, che vengono poi posti all’attenzione dei responsabili.

In Europa, invece, stupisce piacevolmente la storia dell’azienda francese FAVI, specializzata nella pressofusione di leghe in rame. Quando, nel 1983, Jean-Francois Zobrist ne è diventato l’Amministratore Delegato, ha letteralmente ripensato la struttura organizzativa, decentrandola ed affidando a venti squadre orientate al cliente tutti gli strumenti per soddisfarne i bisogni principali. FAVI possiede quella che in gergo si chiama una “flat organization”, un’organizzazione piatta, ossia non gerarchica, dove la voce di ciascun dipendente ha valore, dove il management sembra quasi non essere più necessario, e dove il termine “qualità” fa rima con “responsabilità”: quella di ogni singolo, chiamato a contribuire alla buona riuscita del prodotto ed alla soddisfazione del cliente, l’unico al quale, davvero, bisogna rendere conto.

Per Andy Grove, ex Amministratore Delegato del colosso Intel, d’altro canto, il management è ritenuto necessario, ma non soltanto al livello più alto: anzi, per prevedere i momenti di crisi, la ricetta migliore sarebbe quella di ascoltare con serietà le preoccupazioni del cosiddetto “middle management”, e degli stessi dipendenti che si trovano in contatto quotidiano con problemi ed opportunità rappresentati dal loro lavoro. Fissare obiettivi ambiziosi, ma lontani dalla concretezza percepita dai lavoratori, è un errore molto grave, purtroppo ripetuto da tante aziende, per le quali gli individui sono risorse in senso stretto, e solo in un secondo momento umane.

Da un lato, quindi, esistono alcuni esempi positivi; dall’altro, la realtà sembra mostrare come la strada verso il progresso, anche spirituale, della società sia ancora lunga e piena di ostacoli. E se tanta letteratura promuove concetti virtuosi come il capitale umano, il capitale sociale, o l’etica da insegnare nelle business school, rimane sempre un fondo d’amarezza nel constatare come tutto questo resti confinato ai libri, o ai bei discorsi. Forse una speranza è affidata a chi, oggi, ha terminato i propri studi e può investirli in un’attività utile ed innovativa, o nel ripensare completamente un modo di lavorare o di concepire il lavoro stesso. Tiziano Terzani scriveva:

Io trovo che la cosa più bella che un giovane possa fare è di inventarsi un lavoro che corrisponde ai suoi talenti, alle sue aspirazioni, alla sua gioia, e senza quella arrendevolezza che sembra così necessaria per sopravvivere.”Ah, ma io non posso perché…”.Tutti possono. Capisci quello che dico? Bisogna inventarselo!Ed è possibile, possibile, possibile. (…)

“La verità è una terra senza sentieri”. Cammini, trovi. Non c’è chi ti dice: “Guarda; il sentiero per la verità è quello”. Non sarebbe la verità. Se rimani nel conosciuto non scoprirai niente di nuovo. Come fai? Viaggi sui binari del conosciuto e rimani nel conosciuto. E così è quando cerchi. Se sai cosa cerchi, non troverai mai quello che non cerchi…E che magari è giusto la cosa che conta, no? Per cui è uno strano processo che richiede una grande determinazione, perchè implica rinuncia, assenza di certezze.

È comodo adagiarsi sul conosciuto, no? Alle otto c’è il treno, alle nove apre la banca, comportati bene, non rubare i soldi, e avanti. Ma se tu esci dal conosciuto e cerchi strade che non sono state completamente battute o, come dico, se te le inventi, hai la possibilità di scoprire qualcosa di straordinario.(…)

A volte bisogna rischiare, fare altre cose. Occorre rinunciare ad alcune garanzie perché sono anche delle condizioni.(…)

Secondo me c’è in tutte le cose sempre una via di mezzo. Non occorre né rinunciare a tutto, né volere tutto. Basta avere chiaro cosa stai facendo, quali sono i compromessi.

Ci vuole solo coraggio, determinazione, e un senso di sé che non sia quello piccino della camera e dei soldi; che sia il senso che sei parte di questa cosa meravigliosa che è tutta qui attorno a noi. Vorrei che il mio messaggio fosse un inno alla diversità, alla possibilità di essere quello che vuoi. Allora capito? È fattibile, fattibile per tutti fare una vita, una vita. Una vera vita, una vita in cui sei tu. Una vita in cui ti riconosci.”

Insomma, forse una speranza è affidata a tutti coloro che vorranno riconoscersi nella propria vita.


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